SULL’ANTICO CAMPOSANTO DI PALERMO
* * *
CARME
Quel loco cinto da dimesse mura,
E da cipressi di sembianze fosco,
Che posa in mezzo alla fiorita valle,
Un dì vedeva sempre in sulla sera
Di cadaveri un gruppo; un uom ravvolto
Dentro laceri panni, all’appressarsi
Del convoglio feral, sporgea la testa
Dalla sua cella, e trattosi indisparte,
Venia ghermendo una pesante chiave,
Una lampade… tosto ad uno ad uno
Gittava i corpi in una fossa, senza
Nè pur mirarli… Spesso su quel volto
Impassibile il vento sospingeva
Una soffusa chioma, calda ancora
Di disperati baci, ancor del pianto
D’innamorato giovane stillante!
Udiasi un tonfo in quell’orrenda buca,
Come di ripercossa onda sul lido,
Ad ogni corpo che cadea, sdruciva
Certo altri corpi, che da lunga etade
Giaceva ivi! Era quel suon lugùbre
Degli estinti il saluto, era una voce
Di conoscenza, in quel fatal amplesso!
Di quando in quando, a notte fosca, intorno
Quel cimitero squallido, a’ dì nostri,
Errava, scinta il seno una figura
Scapigliata; tenea per le due mani
Due pargoletti, che a’ suoi fianchi forte
Stringevansi; col piè battea la pietra
Sepolcrale e chinandosi, origliava
Se qualche voce uscisse da sotterra
A consolarla… Invano!… Era una donna,
Che avea perduto nel marito, il padre
De’ figli suoi, de’ miseri sostegno!
Quest’infelice giva in ciascun giorno
Per la città, con gli orfani, chiedendo
Co’ mesti sguardi, col pallor del volto,
E l’andar rotto, a disfamarsi un pane:
Se gli venia da carità concesso,
Lo divideva a’ figli, un brano solo
Riserbando per lei di quel veleno!
Ma se de’ ricchi l’insensata turba
La ributtava, non sapendo a quale
Potenza reclamarne, andava al sito
Ovea giacea sepolto il consorte,
L’evocava, e delusa in ogni volta,
Reddiva sempre… Dopo quel tremendo
Freneticare, non avea piu fame!
Or quel loco è diserto; in un sol mese,
Di sformati cadaveri una piena
Traboccò dentro le dischiuse gole
Del cimitero…. ad ogni istante, un carro
Cigolante, giungeva in mezzo al tetro
Ricinto; orridi corpi aspersi, intrisi
Di bava, e sangue, balestrati a terra
Tutti deformi, e storti, ancor dolersi
Sembravano; parea che le convulse
Bocche slanciasser voci d’anatema!…
Una pallida nube interminata
Covriva il cielo a guisa di gramaglia,
Rompeva i raggi al sole, e nol celava;
Ardente un’aura grave, vaporosa
Incedendo succhiava dalle vene
Gli umori, agli occhi invelenia la luce!
Dalla città malefica fuggiva
La gente, a modo di sbandata torma,
E non volgeasi indietro: iniqui tanti
Tradiano il sangue, il più celeste affetto
Rinnegavano… Colta dall’atroce
Livida lue, abbandonata spesso
La vergine promessa, ad ogni accento
Che udisse, ergeasi sorridendo, il sangue
Le affluiva alle guance vereconde,
Ma tosto priva della dolce speme
Di riveder l’ultima volta almeno
L’amato volto, ricadea supina
Sfigurata sul letto, e senza lena!
Ahi quanti in quei fatali giorni tetri
A’ singhiozzi, agli spasimi del padre,
De’ figlia stessi agonizzanti, un guardo
Negaron anco, una parola estrema…
Or quei singulti, e il non curato pianto
Gridano morte all’empio! Innanzi agli occhi
Gli sta l’impronta de’ traditi volti
Di sanguinose lacrime velata,
L’insegue semprepiù, gli s’avvicina
Alla bocca, da’ labbri succhia, e svelle
Avidamente i denegati baci!…
Poi, nel silenzio, della notte a mezzo,
Sente un grido infinito in centro al core,
Balza, si posa sovra il sen la destra
Per acchetar quel suon, che stride, e mugge
Come tromba ferale, a cui risponde
Simile all’eco, un altro sterminato
Grido dal cimitero; e poi succede
Un più cupo silenzio, e più solenne!
Qual prestigio ha la vita? In che concentra
L’empio le sue sfrenate voglie ingorde?
Perché raccoglie, e mercanteggia il pianto
Di chi fra le sue braccia s’abbandona,
Se di se stesso l’inquieta cura
L’invasa? Immoto, imperturbabil sempre,
Perché l’altrui virtù niega, o deride?
Cos’è la vita!… Un insensato istinto,
Un inferno, una smania, un’agonia,
Un veleno che rode anche il pensiero!
Or questa cruda attossicata fiamma
Ci sospinge nel cor di sangue un’onda,
Muove, e slancia l’idea… di quella luce
Di che splende, si nutre, e si consuma!
Se la comprime una ghiacciata mano
Pria che si smorzi, guizza in modi strani,
Si divampa nel petto lacerante,
Strappa il moto dal cor, raggruma il sangue!
Allor l’empio rinnega, maledice,
Tradisce, infama ogni più sacra cosa
Purchè viva, sia pur che d’onta via!
Né bada ch’altri in sulla fronte scritto
L’assassinio gli legga, e la condanna,
Purchè viva… Chi tanto ama la vita
Eternamente maledetto viva!!
Fra il tristo lezzo di codarde voglie,
Tra sventurate genti, havvi un istinto
Sacro, ispirato, che sublime estolle
In seno a Dio, colui che da celeste
Impulso spinto, in altri vive, e ride
E piange dell’altrui sorriso e pianto!
Febbricitante per crudele angoscia
Videsi a fianco d’un morente in atto
Di forsennata, una divina donna
Tenersi il capo al seno stretto, e tanti
Dargli baci, di lagrime bagnarlo,
L’irrigidita man posarsi al cor,
Trasmutandogli in bocca ansia il respiro,
Ma non rompea per questo il mortal gelo
Sulle labbra convulse… Ad ogni poco
S’ottenebrava l’amoroso sguardo
Del moribondo; della sua consorte
Vedea l’aspetto come ricoverto
Da densa nube, e ne sentiva appena
L’alito… Allora ruppergli le vene,
Che dier sangue di livido colore!
La sfortunata vide in quel rappreso
Umore un segno di sicura morte,
Baciò prima il marito, e bevve il sangue…
Poi lo baciò di nuovo… Ahimè che festi,
Dimmi, amor mio, che festi, a lei diceva
Quel misero, che vide il disperato
Tratto, e tremando ripeteva che festi?…
Non gli rispose… mormorava un nome
La trista… il di lui nome… sovra il petto
Gli mise il capo languido… e spirò!
Intanto a mucchi i puzzolenti corpi
Giacevansi insepolti; il cimitero
Li respingeva in guisa miseranda!
Facean corona alle ricolme tombe
I cadaveri a cento, a mille, in modo
Di pitoccanti; in sulla notte, accesi
Tizzoni eran slanciati ad essi in mezzo,
Ed impeciate legna… Un fumo denso
Vedeasi pria, poscia una vampa enorme
Lussureggiante… In qualche mucchio, spesso
Sorgea furente una sparuta forma,
A guisa di dannata anima fella,
Di chi mal vivo, era creduto estinto…
Or desto a forza del cruciante fiato
Giva crollante su gli arsicci volti
Per trabalzi… e cadeva… una preghiera
Mormoràndo, slanciavasi; di nuovo
Incespicava in orridi viluppi;
Risorgeva… s’udia feroce un grido…
Una bestemmia… La terribil voce
Della fiamma parea l’empia favella!
Ahi memorie!… da lungi or guata, e piange
L’infausto loco il cittadin tremante.
Sa, che in quel sito giace un corpo amato
Fra mille altri confuso, col pensiero,
Penetra in fondo al tristo laberinto,
Cerca, e non trova mai… Dio! qual fatale
Mistero cinge, e qual funerea sorte
Ogni umano desio! credevan tanti
Spirar sull’altrui seno, e gir sepolti
In una tomba insieme… L’armonia
Diffondevan così dentro il sepolcro,
La dolce luce… ed ora… ov’è la polve?
Ma ben altre memorie i padri nostri
Trasser dal fero loco; una vendetta
Sacra in quel sito si compìa, redenta
Fu la città da’ vili suoi tiranni
Co’ pugnali redenta… ed ivi il sangue
Sgorgava a rivi a lavar l’onta e l’ira
Dell’oltraggiata e non mai doma gente!
Eterno è qui l’amore… eterna è l’ira!
Nel cor l’Etna ci bolle, in ogni sguardo
Brilla, stride la folgore, corrusca,
Stritola in fronte all’oppressor l’oltraggio!
E s’abborriva che in un sito stesso
Giacesser l’ossa de’ nemici, e l’ossa
Nostre; la plebe ne fremea, divisi
Noi fummo in vita, ogni uom gridava, ancora
L’eternità… l’abisso ci divia!
Ora giaccioni insieme… ed in che modo!..
Vincenzo Errante (1813-1891), politico e letterato siciliano, è autore del carme “Sull’antico camposanto di Palermo”. La poesia non nomina mai il cimitero di Sant’Orsola ma gli ultimi versi, riferiti ai Vespri Siciliani, permettono di riconoscerlo:
Ma ben altre memorie i padri nostri
Trasser dal fero loco; una vendetta
Sacra in quel sito si compìa, redenta
Fu la città da’ vili suoi tiranni
Co’ pugnali redenta… ed ivi il sangue
Sgorgava a rivi a lavar l’onta e l’ira
Dell’oltraggiata e non mai doma gente!
Eterno è qui l’amore… eterna è l’ira!
[…]
E s’abborriva che in un sito stesso
Giacesser l’ossa de’ nemici, e l’ossa
Nostre; la plebe ne fremea, divisi
Noi fummo in vita, ogni uom gridava, ancora
L’eternità… l’abisso ci divia!
Ora giaccioni insieme… ed in che modo!..
La poesia apparse per la prima volta sul giornale la Ruota dei fratelli Castiglia[1] ma senza la parte finale che fu censurata, mentre fu pubblicata per intero nella raccolta del 1846[2].
[1] Luigi Sampolo, Commemorazione di Vincenzo Errante, Tip. F. Barravecchia e figlio, Palermo 1902, p. 7
[2] Vincenzo Errante, Poesie, Società Tipografica sul lago di Como, Firenze 1846, pp. 231-240
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